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Tutto ciò che viene chiamato giornalismo merita la stessa protezione? | Opinione



L’unione tra democrazia e libertà di stampa – come veniva inizialmente chiamata – è stata forgiata in un’epoca che non è più la nostra. I liberali classici capirono presto che il potere assoluto tendeva all’eccesso ed era incompatibile con l’esistenza di piattaforme che rendessero possibili la critica e l’approvazione. Non è che il giornalismo fosse qualcosa di bello in sé, ma il suo contributo funzionale alla democrazia politica era così evidente che l’uno non poteva più essere compreso senza l’altro. Tocqueville sintetizza bene questa contraddizione quando afferma che il suo amore per la libertà di stampa deriva più dai mali che essa previene che dal bene che procura.

La disinformazione e notizie false Oggi rappresentano uno dei più grandi attacchi ai sistemi democratici e forse è opportuno ritornare al vecchio racconto di quali mali previene e quali beni realizza, una professione che ha ampliato e diversificato le sue forme, il suo protagonismo e la sua influenza fino a limiti insospettabili. La Costituzione protegge i professionisti dell’informazione da ingerenze indesiderate attraverso garanzie del tutto uniche sia nei confronti dei loro datori di lavoro (clausola di coscienza) che nei confronti della magistratura (segreto delle fonti), cosa che non si verifica in altre professioni e che mira a fornire ai cittadini un’informazione libera, plurale e veritiera . Per questo è urgente evitare che si finisca per tutelare i disinformatori di professione, come un corpo malato che attacca se stesso.

Se il liberalismo democratico moderno ha raggiunto un ampio consenso sulla necessità di sottoporre il mercato a determinate regole che garantiscano “un giusto ordine economico e sociale” (come affermato nella stessa Costituzione spagnola), sembra ragionevole chiedere che il potere politico faccia lo stesso con un’attività enormemente deregolamentata e soggetta a dinamiche ultracompetitive che difficilmente possono difendere l’interesse generale. Non può sorprendere nessuno che proprio anno il Parlamento Europeo e il Consiglio dell’Unione Europea abbiano approvato un Regolamento volto a impedire l’uso di questo tipo di libertà “a fini abusivi” e che poco dopo lo stesso governo spagnolo – per ora con poche concrezione – si è affrettato ad annunciare un piano di “rigenerazione democratica” volto a regolare l’ecosistema dell’informazione.

Si potrebbe obiettare che ciò significherà influenzare ambiti fondamentali per la professione giornalistica. Tuttavia, regolamentare può servire ad ampliarne i contenuti, le garanzie e i requisiti, senza nuocere a nessuno. Infatti, durante il governo di José María Aznar, è stata approvata senza alcun voto contrario la Legge Organica 2/1997 che regolava la clausola di coscienza dei professionisti dell’informazione, la cui iniziativa corrispondeva a Izquierda Unida. La stessa Costituzione ci dà un indizio quando richiede che l’informazione sia veritiera, quindi il messaggio sembra chiaro: non è giornalismo né qualsiasi trasmissione di informazione merita di essere tutelata.

Lo stesso non è avvenuto con il segreto delle fonti, prerogativa che consente al giornalista di tenere nascosta a qualsiasi potere dello Stato l’identità del suo confidente. Non abbiamo sviluppi legislativi né significative pronunce della Corte Costituzionale (la più recente STC 30/2022 legata alla Caso Cursach nelle Isole Baleari dove il giudice ha ordinato di conoscere l’identità delle fonti che avevano fatto trapelare informazioni riservate a un organo di informazione) e ciò nonostante il Consiglio d’Europa avesse raccomandato più di 25 anni fa una disposizione esplicita e chiara per questo diritto .

Sappiamo però che nessun diritto è illimitato e deve cedere il passo a valori più preponderanti, tra cui potrebbe esserci l’investigazione di reati particolarmente gravi. Sembrerebbe ragionevole che, prima di decidere di divulgare un’informazione, il giornalista possa verificare se ha agito con criteri deontologici corretti e se, eventualmente, sarà in grado di mantenere l’anonimato delle sue fonti. Lungi dallo scoraggiare il loro lavoro, rafforzerebbe qualcosa di così basilare e poco compatibile con il clickbait come dovere di corroborare le fonti.

Sebbene non disponiamo ancora di una legge democratica che regoli la segretezza delle fonti, sia i Consigli della stampa di diversi Paesi sia la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno attribuito al criterio deontologico – anch’esso in netto declino – un ruolo predominante nell’identificazione delle condotte che non possono beneficiare di questo diritto. Tra tutte vale la pena evidenziare la questione Stoll contro la Svizzera, dove è stata analizzata sia la malafede del giornalista nell’ottenere informazioni che sapeva riservate, sia – e soprattutto – la sua successiva mancanza di rigore e obiettività nel pubblicare la notizia, confermando la multa che gli era stata inflitta dallo Stato svizzero. Se la veridicità è la pietra angolare su cui si fonda il diritto fondamentale all’informazione nella nostra democrazia, dotarci di meccanismi di controllo e garanzia efficaci potrebbe essere una delle ultime opportunità che abbiamo per preservarlo.



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