Roser Bru, il pittore dimenticato dell’esilio Arte e architettura
“Chi sono io? Da quale tempo, da quale nascita, da quali terre, da quali cambiamenti?”, si chiedeva in una delle numerose annotazioni lasciate da Roser Bru. Il biglietto non ha data, ma è frutto della vecchiaia e, soprattutto, dei ricordi che riaffiorano quando ci si guarda indietro. Parigi, Barcellona, la Seconda Repubblica, l’esilio… “Essere felici andando al liceo, a scuola, passeggiando per il quartiere Gotico fino al parco, quattro volte al giorno. 1936. La guerra civile, tre anni. Bombardamento a Barcellona, Plaça de Catalunya dove eravamo. (…) 1939. Varcando la frontiera verso la Francia, nevicava. Documenti! Documenti…! E ripartire da Bordeaux, per un mese in barca Winnipegarrivano a Valparaíso, Cile”. Bru, nata a Barcellona il 15 febbraio 1923, aveva 16 anni quando arrivò in Cile, dove divenne una delle pittrici più riconosciute del paese – nel 2015 ricevette il Premio Nacional de Artes Plásticas – e dove morì il 26 maggio 2021.
Sabato 23 sarà inaugurato al Museo d’Arte di Girona Rosa Bru superare la distanzala prima grande mostra retrospettiva del pittore di origine catalana. La mostra, curata da Àlex Mitrani e Inés Ortega-Márquez, è un gesto importante verso la rivendicazione di un pittore che, nonostante abbia opere esposte al MNAC e al Museu Nacional Centro de Arte Reina Sofía (Madrid), è sconosciuto al generale pubblico. “Ha avuto un grande riconoscimento in Cile, ma l’esilio ha favorito il suo oblio qui, in patria. E poi c’è il fatto di essere donna, che in termini di riconoscimento è un handicap, perché all’artista uomo è sempre stato dato risalto. Per questo motivo, la rivendicazione di Roser Bru e delle artiste è una questione prioritaria”, afferma Àlex Mitrani. Infatti, in qualità di curatore d’arte contemporanea al MNAC, sottolinea l’impegno che i musei devono avere nella rivendicazione e nell’inclusione di artisti che erano al secondo o terzo posto dietro ai loro contemporanei. Mentre al Macba è possibile vedere fino al prossimo gennaio un’ampia retrospettiva della poetessa, artista e attivista Mari Chordà, il MNAC include nella sua collezione permanente il lavoro di diversi artisti, molti dei quali esclusi dal canone, e allo stesso tempo sta preparando una mostra sulla funzione dell’arte come resistenza al franchismo e sul ruolo centrale delle donne in campo estetico, emotivo e politico. Aurora Altisent, Montserrat Gudiol, Amèlia Riera o Ana Lentsch sono alcuni degli artisti il cui lavoro sarà rivendicato nel tentativo essenziale di farli conoscere a un vasto pubblico.
L’anguria, simbolo più iconico di Bru, è il frutto e, allo stesso tempo, il corpo femminile ferito da tutta una serie di violenze
Ad eccezione di Alisent e Riera, gli altri artisti, a cui bisogna aggiungere Chordà, appartengono a una generazione successiva a Bru, che, soprattutto per quanto riguarda il discorso femminista e il lavoro sul corpo femminile, è stato un pioniere “Quando Roser iniziò a dipingere alla fine degli anni Cinquanta, inizio degli anni Sessanta, la questione delle donne non era nell’agenda politica; tuttavia, non solo comincia a dipingere la donna nuda, ma fa una pubblica dimostrazione che la donna fa sesso e ne gode”, commenta Inés Ortega-Màrquez, e, allo stesso tempo, rappresenta la donna madre, la donna che dà nascita. In sostanza, aggiunge Mitrani, “Bru esplora l’identità femminile, simboleggiandola attraverso diverse figure”, come l’abbraccio tra madre e figlio o il cocomero. La donna ha fin dall’inizio un ruolo di primo piano, soprattutto la madre; infatti, la rappresentazione della maternità attinge all’arte romanica, di cui Bru ebbe diretta conoscenza durante il suo primo soggiorno a Barcellona e che influenzò il suo primo dipinto. Paula Bonet, che ha conosciuto e lavorato con l’artista, commenta: “Apprezziamo alcuni aspetti importanti nella sua evoluzione come persona e come artista: da queste maternità rotonde, quasi piatte, protettive, vediamo altri corpi perché rappresenta vite aliene (quelle di scomparsi sotto la dittatura, quelli degli autori che ammirava, come Woolf o Khalo). Il piacere, l’allegria appaiono anche attraverso i suoi simboli: il cocomero, il fico. Questi simboli, soprattutto quello dell’anguria, compaiono in molte occasioni attraversati dalla lama di un coltello”. L’anguria, simbolo più iconico di Bru, è il frutto e, allo stesso tempo, è il corpo femminile ferito da tutta una serie di violenze. È vita ed è dolore e, con il tempo, diventerà anche il riflesso del Cile sotto la dittatura: “Nel cerchio completo del frutto c’è anche – oltre alla scoperta e all’amore – una ferita. Un paese è, a volte, anche un corpo troppo ferito”, ha osservato Bru, che ha sottoscritto l’idea di compromesso di Margarite Yourcenar. “Accetta la lotta come se fosse utile”, osservava lo scrittore, e questo è ciò che Bru ha fatto dall’inizio della sua carriera. Dipingere era per lei una lotta, perché creare – dipingere, incidere, scrivere – era una forma di impegno con la patria, con le donne e con la memoria.
L’impegno e il ritorno al Barcellona
“Roser Bru è un’artista che si definisce per il suo femminismo e il suo impegno politico contro il totalitarismo e a favore della democrazia. La sua opera ha un’importante dimensione umanista, rivendica i valori dell’intelligenza, della sensibilità, anche una certa fragilità, partendo dal presupposto che la vita è soggetta al caos, al dolore e all’ingiustizia causata dagli uomini”, sottolinea Mitrani. La visione del mondo di Bru è il risultato della sua esperienza di guerra e di esilio, ma anche degli anni di dittatura militare nel Paese che l’ha accolta e che è diventato la sua casa. Nel 1958 torna per la prima volta a Barcellona, un viaggio iniziatico in termini di pittura e un’amara riconciliazione con un paese sotto dittatura, un paese che era suo, ma dove non poteva vivere. Il MNAC è uno dei primi luoghi visitati da Bru, che, come molti altri artisti della sua generazione, è affascinato dall’arte romanica. In quei giorni riscoprì l’opera di Tàpies, di cui aveva già sentito parlare. È al ritorno da quel viaggio che inizia veramente la sua attività artistica, legata fin dall’inizio all’Officina 99, fondata da Nemesio Antúnez, e dove lei, la “regina madre repubblicana”, come la chiameranno le generazioni più giovani, rimase fino al FINE “La reazione dell’opera di Roser Bru alla violenza del 1973 fu di grande dolore, poiché la ricollegava nuovamente alle esperienze dell’esilio, della guerra civile spagnola e ai traumi della seconda guerra mondiale. Questo dolore viene proiettato per anni e si trasforma a sua volta in un altro filo conduttore del suo lavoro, quello della memoria”, scrive Ariadna Valdés nel catalogo della mostra. Bru articola il suo impegno politico attraverso una riflessione sulla memoria e sulla sua storia; A Valdés, sottolinea, non interessa “il monumento eretto alla memoria pubblica”, ma piuttosto “la piega nascosta della memoria privata, quella delle tavole e dei letti, quella delle persone e dei loro mestieri, quella dei riti quotidiani di corpi che mai scomparire del tutto”. Alle immagini della dittatura si sovrappongono le immagini della Guerra Civile: a Monumento alla morte di un miliziano. Agosto 1936riprende la famosa fotografia di Robert Capa per duplicare l’immagine del miliziano. La duplicazione dell’immagine può essere letta come la moltiplicazione della violenza dei totalitarismi nel corso della storia, moltiplicazione che è rappresentata anche attraverso il ritratto delle vittime: Federico García Lorca, Víctor Jara e Lila Valdenegro 335. Lorca si riflette nel volto di la giovane Lila Valdenegro, il numero mancante 335, e, allo stesso tempo, il suo volto si riflette nell’Autoritratto di Víctor Jara, dove, attraverso il titolo autoreferenziale, anche Bru è specchiato Questi ritratti, scrive Gabriel Hoecker, responsabile della catalogazione e digitalizzazione dell’archivio di Bru, “sono permeati di occhi che creano il luogo scomodo di chi viene osservato fissamente dai morti, il luogo della contingenza e della ripetizione, dove si incrociano e il passato e il presenti si intrecciano”.
Dipinge, legge e ripensa le opere, consapevole che una pennellata può cambiare tutto anche se tutto rimane uguale
Pittura e litografia
Roser Bru dipingeva, e molto, quando iniziò a frequentare Taller 99, dove imparò la tecnica dell’incisione, che perfezionò, diventando una delle incisorie più prestigiose del Cile. La mostra di Girona è, in questo senso, una rivendicazione di Roser Bru come pittrice e, in particolare, come pittrice figurativa, perché, come lei stessa ha affermato, i suoi dipinti apparentemente astratti sono anche rappresentazioni della realtà. “Lavoro con l’immaginazione”, riconosceva l’artista, un’immaginazione che gli permetteva di vedere la realtà da diverse angolazioni, ma, per quanto trasmutata, la realtà e la volontà di presentarla erano sempre presenti. “Non ha mai abbandonato la figurazione”, difende Ortega-Márquez, anche se “all’inizio ha alcune opere di astrazione geometrica che attingono molto dall’opera di Tàpies, che l’ha influenzata molto, soprattutto quando era giovane”. Grande ammiratore di Goya e Velázquez, prova ne è la sua reinterpretazione le menine–, Bru rappresentava una realtà trasformata dal suo sguardo unico, fortemente influenzato dalla letteratura. Lettrice eccezionale, nei suoi taccuini annota letture, citazioni, nomi, riferimenti… Al di là dei ritratti che ha realizzato—Kafka, Gabriela Mistral, Virginia Woolf, Miguel Hernández—, la letteratura e la filosofia sono gli strumenti per pensare soprattutto alla sua pittura in chiave politica: riflette sulla rappresentazione e i suoi codici (tra le sue annotazioni troviamo citazioni di Julia Kristeva e approcci saggistici al rapporto tra pittura e fotografia), su aura e riproducibilità, nonché su sulla resistenza dell’arte (leggo con devozione Walter Benjamin) o sulla possibile riparazione attraverso l’arte di ciò che è perduto e che può essere rappresentato solo come vuoto. “Pensa al tuo lavoro senza conoscere quello degli altri, senza ossessionarti, pensa e ripensa e guarda ancora”, scriveva Bru. Queste parole catturano lo spirito critico di un pittore che non ha mai terminato un’opera, ma vi è tornato per ripensare il gesto, lo sguardo, la tecnica, la pennellata. “Si impara avanti e indietro. Quando ho un’idea la realizzo su un supporto adatto, che sia tessuto, carta o rame. Così ogni giorno li rivedo con una nuova veste; una sola pennellata è capace di cambiare tutto”. Roser Bru ha dipinto, letto e ripensato le opere fino alla fine, fedele alle parole di Yourcenar, consapevole che una pennellata può cambiare tutto anche se tutto rimane uguale.
«Bru Rose. Superare la distanza’. Museo d’Arte di Girona. Commissariato di polizia di Àlex Mitrani e Inés Ortega-Márquez. Fino al 30 marzo 2025.
Artisti all’estero
Il recupero di Roser Bru in Catalogna è un gesto di restituzione dell’oblio che il pubblico catalano ha nei confronti di alcuni artisti segnati dall’esilio. Attualmente in Catalogna si stanno svolgendo tre mostre incentrate sul lavoro di artisti locali che, pur appartenendo a generazioni diverse, hanno prodotto parte o tutto il loro lavoro all’estero.
La mostra al Museo d’Arte di Girona coincide con una retrospettiva dedicata a Francesc Domingo i Segura (Barcellona, 1893-San Paolo, 1974), presso l’Espais Volart della Fondazione Vila Casas, visitabile fino al 19 gennaio del prossimo anno Curata da Natàlia Barenys in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Domingo, la mostra ripercorre l’opera di un artista che la critica ha posto accanto a Dalí e Picasso a capo dell’avanguardia catalana. Il suo ruolo nella rivoluzione catalana portò all’esilio in Brasile e all’oblio in Catalogna.
Al Museo Picasso puoi visitare la mostra ‘Da Montmartre a Montparnasse. Artisti catalani a Parigi, 1889-1914’, a cura di Vinyet Panyella e Eliseu Trenc. Santiago Rusiñol, Isidre Nonell, Lluïsa Vidal o Pau Casals sono alcuni dei tanti nomi riuniti in questa mostra di artisti che vissero e lavorarono a Parigi tra l’Esposizione Universale del 1889 e l’inizio della Grande Guerra, quando la città ne fu la culla della modernità.