L’arte dei giovani africani cerca il suo posto nelle collezioni europee | Pianeta futuro
Mentre il mondo si arrende all’accelerazione dei legami e dei consumi, il mercato dell’arte contemporanea rallenta, come confermano diversi esperti del settore, come il curatore Jacopo Crivelli Visconti. Si tratta del curatore italiano, che quest’anno ha curato la sezione Ritorno al futurodella 31esima edizione della Fiera d’Arte Contemporanea Artissima, a Torino, afferma, però, che “cresce l’interesse del pubblico che frequenta le fiere verso le minoranze e gli autori provenienti da paesi prima trascurati” ;
Ad Artissima, che si è tenuta all’inizio di novembre nel capoluogo piemontese, si sono riunite quest’anno 189 gallerie da tutto il mondo, una dozzina delle quali promuovono il lavoro di artisti contemporanei del continente africano. E anche se gli artisti stessi lo fanno non viaggiano, le loro opere arrivano senza ostacoli a questi appuntamenti.
«Non è il momento migliore per le vendite, ma non ha a che fare con i paesi emergenti ma con il panorama globale», descrive Crivelli.
In questo contesto, gli artisti africani contemporanei, le cui opere hanno ancora prezzi accessibili, possono contemplare un orizzonte realizzabile nelle collezioni private e pubbliche del vecchio continente, tra collezionisti diversi da quelli che rintracciavano maschere antiche o amuleti tradizionali per esotizzare le loro stanze. Gli approcci alle sue opere permettono uno sguardo su un continente che non si riduce più a colori stridenti o a tracce del primitivismo che i cubisti europei ricercavano un secolo fa. Così, mentre i musei dei paesi centrali effettuano alcune restituzioni di oggetti sacri ai loro paesi di origine, l’arte che emerge nel Sud del mondo cerca il suo posto nelle collezioni.
Tra le vendite di questa edizione figurano quelle di opere appartenenti a due giovani artisti africani: il ruandese Francis Offman, il cui acrilico è stato acquistato presso la galleria P-420 di Bologna, per 12.500 euro, e Hyacinthe Ouattara, burkinabe creatrice di sculture tessili, quattro dei quali sono finiti nelle collezioni di Monaco, Francia e Italia, per prezzi compresi tra 6.000 e 15.000 euro ciascuno.
Lavorare su questioni sociali
Nell’arte contemporanea hanno un posto di rilievo i lavori sulla memoria e le altre testimonianze postcoloniali. Come la scommessa di questa fiera Laveronica, una galleria di Modica (Sicilia), che espone frammenti di un’indagine dell’artista pakistana Maryam Jafri, intitolata Giorno dell’Indipendenza: 1934-1975sulle foto d’archivio delle cerimonie ufficiali di indipendenza dei paesi africani.
Jafri si concentra sul trattamento delle immagini storiche da parte di organizzazioni del continente africano e di agenzie di stampa internazionali, quando le potenze in ritirata gestivano ancora i codici di comunicazione. I documenti europei, così come quelli del Kenya, del Mozambico e della Repubblica Democratica del Congo, mostrano le diverse interpretazioni che si possono dare di uno stesso evento, in base al taglio o all’inquadratura in cui predomina un gesto del leader o un altro oggetto , come un semplice scudo imperiale impresso su una sedia in primo piano.
Un altro artista che lavora con il postcoloniale nella documentazione fotografica è l’italo-senegalese Adji Dieye, il cui lavoro rende omaggio alla scuola architettonica del modernismo tropicale, emersa per dare una nuova identità a Dakar, dopo l’indipendenza del Senegal.
Oggi le nuove voci che emergono nel Sud hanno già qualche orecchio disposto ad ascoltarle. Soprattutto a Torino, città che fu culla del movimento ribelle del arte povera (Lui arte povera degli anni Sessanta).
“Ciò che entra in risonanza con il pubblico europeo, e soprattutto quello italiano, tende ad essere l’astratto, con particolare attenzione al lavoro basato su materiali e texture; soprattutto qui, dove abbondano collezioni e fondazioni dedicate all’astrazione e all’arte. arte povera“, afferma Justin Rhodes, proprietario della galleria Whatiftheworld a Città del Capo, in Sud Africa.
L’intera infrastruttura artistica deve essere sviluppata parallelamente nel continente
Valerie Kabov, proprietaria della galleria First Floor ad Harare, Zimbabwe
Infatti, la galleria First Floor di Harare, nello Zimbabwe, espone opere concettuali di Anne Zanele Mutema, con materiali modesti come corde e predominanza di forme e texture, così come dipinti astratti di piccolo formato del sudafricano Pebofatso Mokoena. Per la proprietaria di questa galleria, Valerie Kabov, per conoscere l’arte africana non è sufficiente vedere cosa concepiscono gli africani della diaspora: “L’intera infrastruttura artistica deve essere sviluppata parallelamente nel continente”, afferma Kabov. Ad Harare esisteva “una comunità di giovani artisti senza sostegno o impegni internazionali e, con l’emergere di questa galleria focalizzata sugli artisti emergenti, altre hanno cominciato ad aprirne”, aggiunge il gallerista che oggi rappresenta 16 creatori della regione.
Altri sudafricani i cui nomi risuonano ai piedi delle Alpi sono Bianca Bondi, che lavora nella dimensione spirituale dei materiali (come il sale nei riti di purificazione) e Mohau Modisakeng, le cui performance e pezzi visivi rimandano alla teatralità del corpo. Allo stesso modo, il camerunese Victor Fotso Nyie modella corpi e volti, tra tradizione e finzione speculativa.
‘Arte Povera’ con un buon budget
Questo legame storico ed emotivo tra Torino e il arte povera Lo sostiene, appunto, una delle mecenate della città, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, presidente della Fondazione Arte CRT, incaricata questa volta di spendere 280.000 euro per acquisire opere per il Castello di Rivoli e la Galleria civica GAM.
Sandretto assicura di non essere mai stato interessato a collezionare nomi ma piuttosto opere, al di là di ogni speculazione finanziaria. Tra quelli acquisiti in 30 anni di collezionismo cita quelli di Michael Armitage e dell’artista di genitori nigeriani Yinka Shonibare, nomi già affermati dell’arte africana contemporanea.
La collezionista torinese – che è membro del consiglio di amministrazione del Museo Nazionale Reina Sofía – mantiene un legame fluido con la Spagna e, soprattutto con Madrid, dove organizza mostre come quella dello stesso Armitage, nel 2022, all’Accademia di Belle Arti di San Fernando. Il pittore keniano è, a sua volta, fondatore del Nairobi Contemporary Art Institute, creato per sostenere i giovani con interessi artistici nel suo Paese.
Da parte sua, il gallerista milanese Daniele Marella, che rappresenta gli artisti africani dall’inizio di questo secolo, espone in fiera un riconoscibile dipinto su tessuto del pittore maliano Abdoulaye Konaté, insieme al lavoro di altri giovani artisti come il nigeriano Samuel Nnorom, che lavora anche lui nel settore tessile; il camerunese Haki Hankson e l’ugandese Godwin Champs Namuyimba.
Svuota il fascismo e sana la ferita coloniale
Sono presenti alla fiera anche direttori di grandi musei metropolitani, come il Reina Sofía, Manuel Segade, o Andrea Viliani, direttore del Museo delle Civiltà di Roma o del Museo delle Civiltà, che ha una tabella di marcia per dare un altro sguardo a un centro che Il colonialismo italiano si vantava ai tempi di Mussolini.
Questo museo conobbe il suo splendore durante il fascismo, negli anni Trenta, con edifici e collezioni concepiti per la validazione imperiale dell’Italia nella grande Esposizione universale che si sarebbe tenuta a Roma, e che infine non poté svolgersi a causa della sconfitta del Paese nella Seconda Guerra mondiale. Tuttavia lo spazio espositivo è rimasto operativo fino al 1971 e da allora è rimasto chiuso. Da tempo Viliani e il suo team stanno preparando una riapertura secondo un altro concetto. Si tratta di mitigare il dolore della ferita del colonialismo nel continente africano, a partire da una delle metropoli del vecchio continente. A questo proposito, dopo aver collaborato con l’artista Sammy Baloji per un’opera sul Regno del Congo, Viliani è ora in trattativa con Francis Offman, per una mostra sul ruandese che verrà inaugurata nei prossimi mesi.
C’è stato un tempo in cui “l’Africa italiana” veniva glorificata, quindi “siamo lieti che Offman crei un’opera per questo museo che possa essere una risposta alla narrativa degli anni ’30 e ’40, e che interagisca con la collezione nazionale proveniente dall’Africa vecchio museo coloniale di Roma, visto che sarà allestito nelle stesse sale”, spiega il regista.
Si tratta di mitigare il dolore della ferita del colonialismo nel continente africano, a partire da una delle metropoli del vecchio continente.
Secondo Viliani, Offman avrà “totale libertà” di raccontare un’altra storia “dal punto di vista di un cittadino africano che oggi vive in Italia”.