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Invisibilità culturale fuori Barcellona | tendenze



I diritti culturali includono la possibilità di accedere alla cultura, ma la realtà è che esiste un centro di Barcellona in termini di risorse e strutture culturali e che l’accesso alla cultura è ridotto o negato a gran parte della popolazione per vari motivi, ma soprattutto socioeconomici e geografico. Per fortuna esiste una rete di eventi che hanno un capitale sociale e una carica simbolica molto importante sia per il luogo in cui si svolgono che per i suoi abitanti, e che riescono ad attirare moltissima gente (ho visto presentazioni di libri molto più affollate alle La Bisbal d’Empordà che a Barcellona).

Così vari enti, con il contributo più o meno significativo dei Comuni, delle Regioni e del denaro privato attraverso quote e sponsorizzazioni, realizzano con successo iniziative culturali che collegano la popolazione. Ovunque ci sono esempi di persone che si raggruppano per fare teatro, organizzare cinema, convegni, concerti, mercati e fiere o gli attesi grandi festival. Questo fa credere a molti che valga la pena impegnarsi e pagare per fare cose al di fuori dei circuiti puramente istituzionali. Perché la Catalogna è un paese associazionista, pieno di gente inquieta che, abituata a governi deboli, porta avanti progetti senza aspettare l’approvazione.

E molto spesso, ciò che inizia con una scarpa e un’espadrillas, finisce per funzionare, diversificarsi e moltiplicarsi. Enric Ribalta, presidente dell’Associazione Amici del Castello di Concabella, lo spiega bene: “Abbiamo capito che se non avessimo fatto cultura per noi stessi, nessuno la avrebbe fatta per noi”, e ora ogni anno 1500 persone seguono i cicli di attività che si organizzano, che per comuni di 100 abitanti sono un’unione. E tutto questo con poca pubblicità, perché agli occhi dei media quello che accade fuori dalle grandi città è praticamente invisibile. Come dice Anna Punsoda, “è un peccato che sappiamo tutto del programma del Palau de la Música o Arts Santa Mònica e, d’altra parte, non si sa quello che facciamo negli altri posti”.

Abbiamo parlato con Rut Martínez del modello e della visione del festival da lei diretto, il Dansàneu. Che bisogna interrogarsi su come garantire la continuità delle proposte, come usarle perché le persone abbiano una scusa per uscire di casa, per partecipare e costruire, per costruire relazioni, e per rioccupare e riempire piazze e giardini ed epoche e angoli e strade per riportarli in vita. Siamo d’accordo che le sfide che affrontiamo sono simili a quelle del resto d’Europa, e che la cultura deve servirci per riflettere e parlare di diritti e preoccupazioni universali: alloggio, integrazione, ruralità, diffusione di servizi, come fare comunità. Di cosa dovremmo parlare, se no? Se la cultura non serve a commuoverci, a rappresentarci, a sfidarci, a fungere da catarsi, a cosa serve? E crescere? – gli chiedo. “Sì, ma non necessariamente in quantità. Quello che voglio è che la gente conosca il territorio senza ucciderlo, che gli scenari siano belli, che la programmazione sia ottima. Fallo sempre meglio!”



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