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Il carosello poetico della scrittrice ebrea Debora Vogel, assassinata nel ghetto di Lviv nel 1942 | Letteratura


Debora Vogel
Debora Vogel in un’immagine della casa editrice Flâneur.

Nel 1900, il filosofo francese Henri Bergson scriveva che le cose fanno ridere quando vengono messi in luce gli aspetti meccanici della società: “vivere veramente la vita non deve ripetersi”.

Trent’anni dopo, la ripetizione e la monotonia avevano preso piede a tal punto nelle città moderne che l’ebrea ucraina Debora Vogel creò un nuovo tipo di poesia per esprimerle. La casa editrice Flâneur ha pubblicato una raccolta di poesie di Vogel’s che ne rivaluta l’importanza nel loro contesto storico, dato che la storia l’ha ricordata principalmente come amica e musa ispiratrice di Bruno Schulz.

Le raccolte di poesie di Vogel sono esercizi estetici e intellettuali di una freddezza afosa. Voleva fare con le poesie ciò che i cubisti facevano con le immagini; quindi le poesie sono brutte quanto i dipinti che le hanno ispirate. Governati più dal mondo delle idee che dall’imitazione della vita, presentano un mondo di determinismo inevitabile, di severa certezza e di deprimente chiarezza.

Nonostante si perda nell’entelechia, il fatto di scrivere in yiddish – la lingua vernacolare degli ebrei dell’Europa centrale prima che fosse quasi liquidata dall’Olocausto – aiuta a radicare la natura prosaica del contenuto. Come dice nel prologo la traduttrice Golda van der Meer, “mira a stabilire lo yiddish come veicolo per la letteratura moderna”.

Il libro di Flâneur contiene selezioni da due raccolte di poesie. il primo, cifre del giorno (1930), si presenta come un blocco di schizzi in cui troviamo variazioni sugli stessi temi con l’obiettivo di affinare uno stile. L’esercizio consiste nel ridurre il trambusto della città a una serie di schemi prevedibili e ripetitivi. Così, le descrizioni di edifici, masse umane o routine si susseguono utilizzando forme (rettangolo, cerchio, linea…), texture (stagno, lino, cartone) e colori.

Nella seconda poesia, manichini (1934), Vogel sembra soddisfatta dell’aspetto formale e si permette di esplorare maggiormente i sentimenti che le città moderne evocano: tristezza, noia, malinconia. Anche il logorio dei sentimenti, come l’amore kitsch, inteso come qualcosa di meccanico, sudato e privo di significato.

Le sue poesie disegnano un mondo che è tutto forma senza spirito – una casa che non è casa è un rettangolo – e leggerle può essere soffocante, come baciare qualcuno attraverso una pellicola di plastica. Ecco perché è emozionante quando, in mezzo a tanta rettitudine, troviamo isole di sentimento. Il libro canta quando parla di attese, addii, nostalgia o rassegnazione, sentimenti onnipresenti nel moderno paesaggio urbano che, con il suo grigiore disumanizzante, le distanze collegate dai trasporti pubblici e lo sgretolamento delle comunità, mette alla prova la resilienza dei legami affettivi.

Bergson riteneva che “la deviazione della vita verso il meccanismo è la vera causa del riso”. Ma le poesie di Vogel non hanno un briciolo di umorismo. Piuttosto, sottolineano l’assurdo, come nella poesia “Mannequins”, dove bambole di porcellana dietro una vetrina gli ricordano la condizione umana: “Il mondo è una giostra di porcellana (…) dove incollati gentiluomini di rigido nero / e elastiche signore azzurre / non hanno altro da fare / che sorridere con gli occhi azzurri laccati / e le labbra contornate di carminio”.

Vogel è un’artista da classificare erroneamente, poiché è una donna ebrea che non scrive di ebraismo o femminismo. La sua arte rimane un artefatto astratto del tempo in cui aprimmo le porte dei nostri cuori alla meccanizzazione, un tempo che ironicamente pose fine alla vita di Vogel quando fu assassinata insieme a quindicimila ebrei nel ghetto di Lviv nel 1942, nel contesto della più grave delle implementazioni di questo pensiero meccanicistico sulla società.

“E non puoi fare altro / che sorridere stupidamente a tutto…”

Figure geometriche

Debora Vogel
Flaneur
211 pagine. 23 euro



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