Cosa abbiamo imparato dal caso Maíra Cardi e Thiago Nigro? Lo psicoanalista spiega
La dottoressa Cintia Castro afferma che il caso va oltre la ricerca di clic e ha generato trigger tra gli utenti di Internet, colpendo principalmente le donne
Un aborto naturale, una famiglia devastata, diversi video pubblicati e vite distrutte. Dopo la ripercussione del caso di Maira Cardi e Thiago Nigro È necessario valutare quanto accaduto in modo più realistico. La coppia è stata “cancellata” per aver denunciato la routine relativa alla perdita del bambino che aspettavano e, purtroppo, ad ogni dichiarazione o post pubblicato, la situazione peggiorava, al punto da scatenare gli internauti, sia per la fatalità con il feto così come la “scusa” data dall’influencer, giustificando che suo marito è autistico, e, quindi, ha reagito in quel modo sconsiderato.
“Questa situazione solleva questioni delicate, sia sull’uso della diagnosi di autismo come giustificazione del comportamento, sia sull’esposizione di momenti intimi e dolorosi sui social media. Va notato che l’autismo è una condizione neurologica che influenza la comunicazione, l’interazione sociale e, in alcuni casi, la comprensione delle norme sociali implicite. Tuttavia, generalizzare e attribuire decisioni o azioni esclusivamente all’autismo può essere dannoso, poiché riduce la complessità della persona e perpetua lo stigma sulla condizione. Non è corretto presumere che tutte le persone autistiche abbiano difficoltà a discernere l’impatto sociale delle proprie azioni o che ciò giustifichi pienamente atti che causano disagio o controversia. In questo caso specifico, la giustificazione avanzata dalla conduttrice potrebbe essere stata un tentativo di proteggere il marito dalle critiche, ma è fondamentale ricordare che l’autismo non deve essere usato come spiegazione automatica degli atteggiamenti”, sottolinea la psicoanalista Dott.ssa Cintia Castro, anche autore di diversi libri sull’autismo.
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È un dato di fatto che l’esposizione di un momento così personale, come la foto di un feto dopo un aborto spontaneo, genera discussioni etiche sull’uso dei social network per affrontare il dolore. Mentre alcune persone trovano conforto nel condividere il loro dolore, altri potrebbero sentirsi invasi o a disagio nel vedere qualcosa di così sensibile esposto pubblicamente.
“Nei giorni successivi al post, ho ricevuto innumerevoli segnalazioni da parte di donne che hanno condiviso come questo tipo di post abbia avuto un impatto devastante sulle loro vite. Ogni storia ricorda sogni infranti e speranze perdute. Molte di loro, con il cuore pesante, hanno rivelato che non avrebbero avuto una seconda possibilità a causa dei problemi fisiologici derivanti dagli aborti. Paura del futuro soprattutto quando le relazioni si sgretolano sotto il peso dell’incapacità di realizzare il desiderio di essere madre. Colpa anche quando il corpo agiva spontaneamente. La società, con il suo sguardo critico ed esigente, impone la maternità perfetta, lasciando molte donne in balia di una sofferenza che va oltre quella emotiva, toccando anche quella fisica. Innumerevoli donne si sono sentite offese, anche quelle che non hanno mai vissuto un’esperienza del genere, ma che, per empatia, si sono legate al dolore di una maternità non vissuta”, riferisce la specialista.
In qualità di editorialista di questo portale, devo segnalare che ero una di queste donne, poiché ho avuto un aborto spontaneo quando avevo 24 anni. Ancora oggi, a 48 anni, sento ancora il dolore e il “senso di colpa” per quello che è successo e l’immagine mi ha fatto rivoltare lo stomaco ed è diventata un nodo in gola per il resto della giornata. E non mi sono riposato finché non ho scritto questo articolo. “L’impatto di un messaggio istantaneo può essere profondo e spesso irreparabile. Gli influencer in generale sono spesso inconsapevoli di ciò che accade nella vita dei propri follower, ignorando le reazioni, le storie e gli stati emotivi che ciascuno si porta dietro. Pertanto, fare attenzione quando si condividono questo tipo di contenuti non è solo auspicabile; è fondamentale. È necessario ricordare che dietro ogni schermo c’è una vita, una storia e, soprattutto, un cuore che può essere più fragile di quanto si immagini”, precisa.
I social network sono strumenti potenti, ma non tutto ciò che viene vissuto necessita di essere trasformato in contenuto. Bisogna fare attenzione per evitare di causare ulteriore sofferenza ad altre persone. E quando immaginavamo che il danno fosse già stato fatto, la situazione è peggiorata ulteriormente quando Maíra ha giustificato il gesto di Thiago rivelando che è autistico.
“Questo tipo di situazione richiede dialogo e consapevolezza. È importante educare la società su cosa significhi veramente l’autismo, sottolineando che ogni individuo è unico e che la condizione non definisce tutte le sue azioni. Innanzitutto è essenziale evidenziare che l’autismo non dovrebbe essere utilizzato come spiegazione di comportamenti inappropriati o male interpretati. Questa giustificazione rafforza gli stereotipi errati sulle persone nello spettro, suggerendo che la condizione implica automaticamente una mancanza di empatia o discernimento sociale, il che non è vero. Molte persone autistiche sono pienamente in grado di comprendere la gravità di situazioni come la perdita di un figlio e di affrontare questi problemi con sensibilità. Generalizzare comportamenti come la mancanza di “indizi” sociali o atteggiamenti controversi basati su una diagnosi di autismo è disinformativo e dannoso, poiché contribuisce allo stigma che queste persone già affrontano. Inoltre, giustificare un atto così intimo e delicato come esporre un feto sui social media sulla base di una possibile diagnosi diminuisce la responsabilità individuale e distoglie l’attenzione da discussioni importanti. Questo atteggiamento può perpetuare l’idea che l’autismo serva da “scusa” per comportamenti inappropriati, quando, in realtà, la mancanza di sensibilità nelle situazioni pubbliche è qualcosa che chiunque, autistico o meno, può presentare per diversi motivi”.
È essenziale che l’autismo venga trattato seriamente e che le persone comprendano la diversità delle caratteristiche all’interno dello spettro. Il comportamento di un singolo individuo non rappresenta l’intera comunità autistica. Promuovere questa visione più ampia è essenziale per combattere lo stigma e il pregiudizio. Per quanto riguarda la presentazione dell’intero caso in sé, lo specialista spiega che in psicoanalisi il lutto è inteso come un processo soggettivo e necessario per elaborare una perdita. “Questo processo, però, richiede spazi e tempi interni, che non sempre sono compatibili con la velocità e l’esposizione dei social network. Registrare e pubblicare la perdita subito dopo averla ricevuta può essere un modo per cercare di controllare o evitare il dolore, spostando la sofferenza verso lo sguardo dell’altro, cioè cercando conferma o addirittura “testimoniando” la propria esperienza.
Questa esposizione immediata, soprattutto di un momento così intimo come l’annuncio della perdita di un bambino tanto atteso, può generare disagio in chi guarda, poiché tocca un confine labile tra pubblico e privato. La reazione di stupore e polemica che ne è seguita riflette come, socialmente, ci si aspetta che certe esperienze siano tutelate da una sfera di protezione e introspezione. “Quando si espone qualcosa di così delicato, è fondamentale riflettere sulla responsabilità emotiva che questo atteggiamento comporta. La condivisione di momenti intimi, soprattutto quelli che coinvolgono il dolore, non colpisce solo chi condivide, ma anche chi consuma quel contenuto. Per alcune persone può essere fonte di ispirazione o conforto vedere che anche i personaggi pubblici affrontano difficoltà, ma per altri può sembrare insensibile o invasivo, causando disagio. Sebbene la coppia abbia il diritto di decidere come affrontare la perdita, questa situazione solleva interrogativi su come l’era digitale influenza il nostro rapporto con il dolore e l’intimità. I momenti di dolore, come la perdita di un figlio, sono occasioni di introspezione, elaborazione e connessione autentica con chi ci è più vicino, cosa che può essere resa difficile quando la sofferenza viene esternalizzata sui social media”, conclude lo psicoanalista.
*Questo testo non riflette necessariamente l’opinione di Jovem Pan.