ATP Finals 2024: Alcaraz soccombe al martello di Zverev e dice addio alla Masters Cup | Tennis | Sport
L’urlo furioso e l’impatto della racchetta contro il sacco al momento della rinuncia al primo set riassumono questo secondo passo di Carlos Alcaraz attraverso Torino, dove è arrivato raffreddato e di cattivo umore, tra sudori, congestione, cattivo sonno e droghe. Energia appena sufficiente, ha detto. E ora il Murcian dice addio, battuto da Alexander Zverev nell’ultima puntata del girone (7-6 (5) e 6-4, in 1h 57m) e senza alcun conto da fare, perché qualunque cosa accada nella partita notturna, succede. Casper Ruud contro Andrey Rublev (20.30), è già fuori dai giochi, senza possibilità. Non c’è calcolo che valga il numero due, arrabbiato e ridotto da un mastodonte che ha preso la sua misura, 6-5 per il tedesco nei cross individuali e già classificato per le semifinali.
Vuole avvicinarsi all’unguento del vertice di Zverev, a quella strada di successo aperta da Jannik Sinner e dallo spagnolo sui palcoscenici più importanti, e propone un passo fermo o quantomeno intimidatorio. Resta da vedere se la sua crescita – non ancora del tutto estrapolata al territorio dell’ majorun gradino in sospeso dopo due finali perse – e il suo spirito ha continuità. Avanza e si dirige verso l’uscita Alcaraz Torino, sobbalzato e sconvolto dopo aver perso il treno, perché in un brutto momento si è ammalato, pensa e ripensa; dirigendosi verso Málaga dopo un capitolo in cui i colpi e l’ottima prestazione della torre al servizio lo hanno costretto a lottare troppo a lungo dalla trincea.
Non parte per niente bene Alcaraz, con qualche imprecisione che apre più volte la porta a Zverev, tutto braccia e tutta gambe per il tedesco, impressionante la leva che fa al servizio. I colpi secchi della pallina risuonano ogni volta che la pallina si schianta violentemente contro il supporto pubblicitario, questa ne è una sofferente: Pam! Suoni vuoti, luce bluastra, tensione nell’atmosfera e due mazze che lo colpivano fortissimo, come se assegnassero un premio per aver rotto la sfera. Quello dell’Amburgo stringe e stringe, e man mano che si avvicina alla rete diventa grande, grandissimo, immenso perché le sue estremità chiudono tutti i varchi, tranne quello che lo spagnolo trova con un formidabile passaggio di rovescio.
“Il tuo lavoro è ben fatto, eh?” dice dal scatola Ferrero, cappello abbassato, la stessa traiettoria che adotta la palla quando Zverev si muove, imposta il tiro e risponde con un tiro rasoterra che si insacca a lato, come se fosse facile. Non è facile avvicinarsi ad Alcaraz, che già sta meglio – la medicina ha impiegato molto tempo, ma finalmente ha fatto effetto – e, data la situazione, si nasconde in disparte e ricorre alla difesa, aspettandolo subito. o un altro, il rivale potrebbe abbassare il pistone e lì potrebbe trovare il gap che al momento non esiste. Non ci sono crepe, quindi è ora di remare. Non sembra essere una giornata (un torneo, a dire il vero) per la poesia.
Il gigante martella e lui gareggia a rimorchio, senza perdere la posizione ma in fretta, pretendendo tutto il tempo, cercando di non spezzare il filo della partita perché controcorrente, il minimo passo falso sarebbe ancora più complicato. Allora mette forte la racchetta e respinge come può, a disagio con quella striscia che mostra di nuovo sul naso e, soprattutto, molto paziente, perché le raffiche sul resto non si fermano. Il bombardamento non si ferma né si ferma Zverev, un bigardo che rimpicciolisce l’attrezzo, come se fosse un giocattolo. Colpisci e colpisci e Alcaraz resiste, cercando di capire come disattivare quel servizio che non ha più difetti. Il peso dei doppi falli è scomparso.
Con punte di oltre 230 chilometri orari e una media intorno ai 220, una vera bestialità, il tedesco, 27 anni, detta il ritmo e chi ha davanti, 21 anni, non può che rassegnarsi, aspettare e fare il gatto. Il Murciano si contorce in modo acrobatico e restituisce quelli che cattura, ma in molte occasioni, troppe, la scia è impossibile da intercettare. Come ho detto: proteggetevi dal diluvio e sperate che prima o poi si calmi. “Non c’è fretta!” grida il suo tecnico. “Bella spinta lì!” “Lì dietro, rocambolesca, c’è tanto spazio E, infatti, “là” continua senza voltarsi e scudo in mano, salvando quella prima palla set e sopravvivendo fino al destino del tie-break, turno per il gastronomia.
Sferra un colpo meraviglioso, veleno puro, ma poi ne sferra un altro brutale del tedesco e comincia inevitabilmente a cedere terreno finché non si rialza e traccia con il suo rovescio una deliziosa parabola, così netta e così perfetta, così architettonica, che riesce a per superare i quasi due metri del colosso biondo, tre in realtà perché al fusto bisogna aggiungere l’estensione della racchetta. Poi arriva l’esplosione, quel ruggito che fa a gara con il fragoroso sistema di diffusione sonora del locale, sempre più forte: “Nooooooo!” Il grugnito infinito è accompagnato da una bella manciata di gesti: perché, perché, perché è successo, impreca, rimpiangendo l’errata lettura di quello scambio doloroso.
Resta ancorato al campo, guarda il suo allenatore senza battere ciglio e va in cattedra come un basilisco. Caldo. La rabbia si trascina fino alla ripartenza, un errore grossolano, tanto umano quanto un rigore, e il costo è alto perché il break concesso pone uno scenario ancora più difficile, duro e ostile, andando in svantaggio – con un certo Zverev al servizio – e rinunciando alle partite, ricordando che in un torneo come questo ogni punto conta e che cominciano ad avere un piede fuori Torino. Anche così, riesce a trovare un’opportunità per impegnarsi nuovamente, ma tutto va storto: la sua destra, un’arma d’oro, stride tre volte –fuoricampo il primo di loro, quando ha il rotturaquindi non c’è modo.
“Sempre in rete, sempre!” si punisce. “Calmati!” cercano di calmarlo dal scatola. Ma non era il giorno, non era la settimana. Non era questa Masters Cup. Zverev, passiamo alle sue cose. Alcaraz arrivò malato e se ne andò ancora circondato da tessuti e muco, con una rabbia monumentale. La dura realtà dell’evento di fine anno.