Avere giocatori che dicono che il loro allenatore è utile per loro può essere il miglior complimento immaginabile. Ma tra utile ed eccessivo esiste un confine molto sottile che, se non viene notato in tempo e ci lasciamo accecare dal desiderio di aiutarli, può sottrarre quando vogliamo aggiungere. È utile dare loro delle soluzioni ed è utile anche lasciarli soli. Il segreto sta nell’ottenere ciò che giochi, quando giochi e come giochi.
Quanto è difficile! E, curiosamente, è la stessa cosa che chiediamo ai giocatori: che riconoscano cosa sta succedendo in campo ed eseguano ciò che devono, quando devono e come devono. Ma chi detta la soluzione, chi decide cosa “deve” essere fatto? Per soluzione intendo qualsiasi decisione che abbia una logica, un significato che tenti di risolvere un problema, e ritengo che non ne esista una sola per lo stesso problema. Ma nella misura in cui entriamo nel labirinto di tutte le possibili soluzioni, perdiamo traccia di quali problemi siano importanti.
È molto comune che gli allenatori, tutelandosi in anticipo e cercando quella sorta di sollievo post partita del tipo “te l’avevo già detto”, scelgano di buttare via tutte le informazioni di cui dispongono, credendo che in questo modo stiamo dando più risorse al team. giocatore. Di solito è il contrario. La cosa più probabile è che, invece di espandere le loro possibilità dando loro l’infinito, le ridurremo. Li blocchiamo. Paralisi mediante analisi.
Nel calcio, troppo di solito non è nulla. Ma in questi mondi di sofisticatezza, di tecnologia, di dettagli, la semplicità fa paura. Non voglio sembrare troppo elementare. Come se semplice fosse brutto o volesse dire che ci muoviamo in bianco o nero. No. Nella semplicità ci sono anche i grigi. Si tratta di non rimanere invischiati in tutti i possibili grigi. Modula la saturazione. Punto medio. Bilancia.
Ho sempre ammirato Ernesto Valverde per avermi trasmesso proprio quel buon senso, quell’armonia nella gestione. Quel grido giusto, una smorfia, un silenzio. Il suo tono calmo. “In campo non conviene al giocatore pensare, non ha tempo”, rispondeva in un’intervista di qualche anno fa. Contrasta con l’idea più moderna di costruire giocatori che giochino sul green. Ma cos’è l’interpretazione? Significa allontanarci dal processo e lasciare che facciano tutto il possibile? Oppure si tratta di delimitare alcuni contesti probabili e delineare intenzioni collettive comuni?
In un discorso che gira su Internet, Andoni Iraola colpisce la chiave: “Nel calcio non esistono due verità assolute, non esistono due giocate uguali”. Riguardo una situazione di gioco, capisce che l’allenatore può apportare “idee” e “dare alcune linee guida” ma che sarà il giocatore a realizzarle. A modo suo, con il suo stile. Non esistono due giocatori che risolvano lo stesso problema nello stesso modo, né lo stesso giocatore incontrerà esattamente lo stesso problema due volte. “Come allenatori non possiamo risolvere tutto, non possiamo controllare tutto”, dice Iraola, un allievo di Txingurri, molto propenso a dare al giocatore – soprattutto a chi ha già un background – la possibilità di trovare le proprie risorse nello stile più puro. fatti una vita, sai già di cosa si tratta. E le loro squadre hanno il loro sigillo. Molti sigilli.
Ritorno sulla necessità di trovare il punto di mezzo. Poca soluzione o nessuna, giusto quel tanto che basta perché il giocatore scorra in campo e non giochi guardando la panchina in cerca di conferme o rimedi. Corberán lo disse meglio ai suoi tempi in Inghilterra: “È importante che quando giocano, i giocatori non sentano di dover trovare ogni volta la soluzione giusta”. Questo non è un esame. È una partita.