Adriano Imperador svela le ragioni della sua carriera ridotta – 10/11/2024 – Sport
A 43 anni, Adriano Leite Ribeiro è ancora uno dei personaggi più magnetici del calcio brasiliano, ma le sue spiegazioni per l’accorciamento della sua carriera, per quanto semplici, non sono sempre accettate.
“Meu Medo Maior”, il suo libro di memorie (pubblicato da Planeta, R$99), scritto in collaborazione con Ulisses Neto, potrebbe essere l’ultima possibilità per comprendere un uomo che è allo stesso tempo gentile e contrario ad aprirsi.
Nel 2000, all’età di 18 anni, il centravanti alto e mancino, ancora riserva, viene convocato da Emerson Leão per le qualificazioni ai Mondiali, sorprendendo anche i tifosi del Flamengo. Ben presto Adriano venne portato nel calcio italiano, dove esplose, giocando nel Parma e nell’Inter. L’apice europeo durò quattro anni, a causa del lutto per il padre e di uno stato di profonda depressione, motivi che lo riportarono in Brasile, con il São. Maglia Paolo.
Si può dire che Adriano ha smesso di essere un professionista poco dopo il titolo brasiliano del Flamengo nel 2009, quando ha perso la squadra per il Mondiale 2010. Nel 2011 ha partecipato con un solo gol al titolo brasiliano vinto dal Corinthians, ma anche questo passaggio aveva già un’aria distratta: aveva abbastanza soldi e sponsorizzazioni e voleva solo tornare nella favela di Vila Cruzeiro, a nord di Rio, circondato da amici, a bere birra e mangiare McDonald’s nell’unico posto dove si era sempre sentito a casa.
Da allora in poi, ogni passo verso l’abbandono prematuro della carriera – in nome del godimento di una vita discretamente dedicata ai piaceri mondani – sembra aver generato una passione del pubblico ancora maggiore. Oggi affascina Didico, non solo per chi gli sta vicino, ma anche per i suoi fan.
La sincerità con cui non si è mai abituato al jet set – senza nemmeno abbracciare i social da influencer quale poteva essere – ha fatto di lui l’incarnazione del brasiliano che, dopo aver conquistato il mondo, non ha dimenticato le sue origini, i famosi “gente come persone”. È tutta un’altra direzione rispetto a Neymar (che nel libro viene menzionato solo una volta, come avversario, nel 2009), in uno dei contrasti più incredibili del calcio brasiliano: da un lato Neymar, il ragazzo perfezionista che non arriva mai in ritardo per la formazione e che ha sempre suscitato amore e odio; dall’altro, il ragazzino che ha sempre avuto problemi con gli incarichi del calcio professionistico e che, abbandonando prematuramente la carriera, è diventato ancora più amato.
Anche il fatto che Adriano abbia preferito pubblicare un libro di memorie anziché un vero e proprio documentario evidenzia la differenza generazionale. Un prodotto audiovisivo avrebbe potuto ricordarci l’eccellenza di tutto ciò che Adriano ha fatto in campo brasiliano ed europeo, ma forse non ne avrebbe catturato l’anima. Difficilmente basterebbero le immagini d’archivio per raccontare l’odissea del ragazzo che, all’età di 7 anni, fu convinto dalla madre Rosilda e dalla nonna Vanda ad affrontare la costosa avventura di entrare nella scuola del Flamengo, dall’altra parte del mondo. città, scortato dalla nonna e nutrito con popcorn e pane zuccherato. E la costruzione del carattere è essenziale per iniziare a digerire la tua drammatica scelta di carriera.
È chiaro che il giornalista Ulisses Neto (che si firma come coautore) è estremamente preoccupato di catturare la voce, le inflessioni, lo slang e il ritmo del discorso di Adriano. E in effetti Ulisse ha un buon orecchio: ha collaborato con il sito The Players’ Tribune, piattaforma famosa per produrre testi in prima persona di atleti famosi, fornendo agli intervistati, tipicamente distaccati, un luogo sicuro per le loro versioni.
“Il nostro primo incontro è stato a dicembre 2020, in un hotel a Barra. Ho aspettato quattro ore che scendesse, alla Players Tribune. Il risultato gli è piaciuto così tanto che ha accettato di scrivere la biografia. Ci sono stati innumerevoli incontri e in li ho dovuti bere quasi tutti”, dice il giornalista, 41 anni.
Per tutto il tempo la sensazione è che siamo in un chiosco a Barra da Tijuca, mentre tifosi, donne e birra si posizionano attorno all’ex attaccante, che racconta con piacere le sue storie e le sue esitazioni. Adriano non ha voglia di farsi nemici, né di intraprendere alcuna riflessione fuori dalla sua portata. È addirittura sorprendente che le parole “razzismo” e “razzista” non compaiano nelle 502 pagine riguardanti un ragazzo nero.
“Credo che ci siano momenti nel libro in cui è chiaro che Adriano ha subito attacchi tipici del razzismo”, dice Ulisse al telefono a Foglio. “Ma non è un argomento che affronta, e il mio ruolo era raccontare le memorie a modo suo.”
Alla fine, ciò che il testo comunica, in una lettura assolutamente veloce e seducente, è l’enorme sollievo dell’ex giocatore nella relativa pace raggiunta dopo essersi liberato dei sogni che, una volta abbracciati dal ragazzo, quasi lo divoravano. In un certo senso, Adriano riflette un altro grande talento che abbiamo recentemente salutato: il pianista Arthur Moreira Lima (1940-2024), che prese direzioni contrarie a quelle che naturalmente aveva previsto, certo che ci fossero “altre cose nella vita” oltre allo studio, come disse al New York Times nel 1981.
Per chi è interessato al calcio, il libro fa luce su episodi famosi. Descrive in modo delizioso la sua versione del pomeriggio in cui, dopo un diverbio con l’allora fidanzata Joana Machado, emerse la leggenda che Adriano e i colleghi del Flamengo avessero legato il muscoloso personal trainer a un albero, e permette di comprendere l’incidente motociclistico che accadde ha causato un’ustione di terzo grado al tallone e ha eliminato Adriano dalle partite decisive nel 2009. Ma “La mia più grande paura” non sarebbe una lettura così gratificante senza il suo genuino interesse per il suo carattere, semplice e complesso, e un momento formidabile per capirlo. .